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Chamje Khola 2018 il sogno mancato

Tornato in Italia da pochi giorni, in moltissimi mi hanno chiesto informazioni riguardanti l’appena conclusa spedizione nepalese e su come sia andata.

Come è andata? Bella domanda… diciamo bene, ma le parole non sono niente per descrivere 24 giorni passati in Nepal, 24 giorni di spedizione, di fatica e di impegno per portare avanti un grande progetto.

Inizialmente avevo pensato di scrivere un vero e proprio diario di viaggio, ma scriverlo ora avrebbe poco senso e rischierei di tediare i lettori con informazioni superflue, quindi mi limiterò a fare il sunto del sunto cercando di raccontare solo i tratti salienti della spedizione.

Arrivo in Nepal con Jari  il giorno 3 febbraio e, dopo aver raccattato i nostri bagagli, ci rechiamo al punto di randevu, un hotel che definirei essenziale e molto economico, dove quasi tutti i membri della spedizione ci stanno aspettando.

Il giorno seguente recuperiamo, con non poca fatica, il materiale arrivato con il cargo e ci prepariamo per il trasferimento verso la nostra meta.

Il giorno seguente siamo pronti per il trasferimento a quello che definirei il Campo Base, Jagat. Un villaggio di una ventina di case arroccato sull’Anapurna Trail, trekking che consente di girare attorno a uno degli 8 8000 m che si trovano in Nepal.

Il viaggio è lungo, tortuoso e direi abbastanza scomodo, circa 5 ore di pullman seguite da 3 ore di jeep su strada sterrata moto accidentata, fino alla meta che, dopo una giornatina del genere, ci appare come un miraggio!

L’hotel Nord Face ci accoglie colorato e simpatico, un mix architettonico interessante, le camere sono molto spartane senza neanche lo spazio dove stipare tutto il nostro materiale personale.

Il giorno seguente lo dedichiamo ad aprire i bagagli e gli zaini arrivati con il cargo per fare un controllo e per assicurarci che tutto il necessario ci sia e che tutto sia funzionante ed in ordine. Sfortunatamente ci accorgiamo che uno dei sacchi è stato aperto, mancano all’appello alcuni ancoraggi, alcune confezioni di cibo liofilizzato e 2 radio.

Nei giorni seguenti per sgranchire le gambe e per acclimatarci un po’ all’aria Nepalese decidiamo di percorrere 3 forre che si trovano nelle vicinanze del campo base.

Iniziamo con il Sianghe, forra da me già percorsa nel 2011 durante il RIC, dove la verticalità è preponderante sia sul sentiero di avvicinamento, tutto a scale, che durante la discesa. Questa forra si distingue grazie alle sue due grandi verticali: 110 m e 90 m che alzano l’astina di un percorso abbastanza aperto e non troppo tecnico.

Il giorno seguente lo impegniamo con la discesa del Riandu, forra decisamente meno tecnica, con una portata inferiore a quella della Sianghe, ma decisamente più incassata con scorci paesaggistici interessanti.

Dopo un giorno di riposo decidiamo di andare a scendere il Jaghat parte bassa. Il primo tentativo va male a causa della errata valutazione del materiale necessario ad armare una forra da 7 ore di percorrenza (si era deciso di portare solo 15 ancoraggi…). Questa défaillance ci suggerisce di rivedere le assegnazioni dei compiti all’interno del team e far approntare i materiali a qualcuno con più esperienza in merito.

Il giorno seguente ci riproviamo e riusciamo finalmente ad entrare. Incontriamo la prima vera forra! Un bel percorso incassato, acquatico e tecnico, una bella palestra in vista di quello che dovremo andare ad affrontare. Il Jaghat Khola è proprio un bel torrente con passaggi meravigliosi purtroppo intramezzati da 2 zone di frana che interrompono la continuità della forra. Durante questo percorso si possono incontrare alcuni passaggi degni di nota come la bellissima cascata da 90 m che convoglia tutto il flusso in un mezzo toboga di 10 m dove si viene, se non si è attenti, investiti dalla potenza dell’acqua. Altro passaggio degno di essere citato è la sequenza posta quasi alla fine del torrente 25 + 5 + 25 m con 2 pozze pensili veramente intense e a tratti abbastanza tecniche.

“Ok! Siamo pronti per la grande avventura!” ci diciamo sottovoce, ma il meteo cambia e dal bel sereno dei primi giorni passa ad un variabile che non porta pioggia, ma che maschera le vette che ci circondano e che noi teniamo d’occhio perché sono alla stessa altezza del traverso esposto a 4200 m, passaggio obbligatorio per entrare in Chamje Khola. Rimaniamo in standby per alcuni giorni in attesa della finestra giusta di bel tempo che ci consenta di passare il col di Tallera a 4250 m di altitudine.

Il giorno giusto è il 16 febbraio, carichiamo utta la nostra attrezzatura sulle jeep e con esse ci trasferiamo al piccolo villaggio di Tal (45 minuti) dove, dopo una buona colazione e dopo aver incontrato il gruppo di 14 portatori che ci aiuteranno a portare a monte tutto il necessario per la discesa, finalmente si parte! Obiettivo del giorno campo 1 a 3050 m (1300 m di dislivello attivo), impieghiamo circa 4 ore per raggiungerlo.

Il giorno seguente ci aspettano altri 1200 m di dislivello attivo e 800 m di discesa per raggiungere campo 2 che poi è anche la partenza della parte torrentistica del nostro lungo viaggio. Faccio però volentieri un passo indietro e spendo due parole sul trek. Personalmente non ero mai stato a 4250 m di altezza partendo con le mie gambe da 1600 m, sì sono andato sul Monte Bianco in funivia, ma non è decisamente la stessa cosa!!! Dico la verità: fino a 3600 m non ho patito un granché, ma dopo la mancanza di ossigeno, per uno che è abituato a vivere a 180 m slm sulle sponde del lago di Como, si è fatta sentire! Nulla di drammatico, fiato corto e decisamente più pause del solito, non sono arrivato su strisciando, ma l’ultima rampa le mie gambe l’hanno patita abbastanza!

Abbiamo avuto la fortuna di non trovare neve sul Col Di Tallera e questo ci ha molto agevolato. Il famigerato traverso in realtà è una strettissima traccia con numerosi saliscendi che attraversa il fianco della montagna; il pendio sottostante è quasi verticale e reputo molto difficile, se non impossibile, fermare la caduta in caso di passo falso, l’attenzione in quel tratto deve essere massima e gli occhi fissi su dove si sta per mettere i piedi. Noi abbiamo attraversato questa parte di avvicinamento avvolti nelle nuvole e quindi abbiamo potuto godere solo a brevissimi tratti del fantasmagorico paesaggio che si più godere da lassù. In ambienti del genere ci si sente piccoli piccoli, si ha la concezione di trovarsi ad oltre 4000 m ma le montagne che ti circondano (Manasli e Anapurna) si innalzano per altri 4000 m di quota e quindi pensi: “Ma caspita!”

Arriviamo a campo 2 intorno alle 16:30, un buon orario per montare il campo, peccato che pochi istanti dopo essere arrivati inizi a nevicare…. montiamo le tende in fretta e furia, in meno di un’ora tutto il campo è preparato, fuoco compreso.

Il giorno seguente, nonostante la sveglia di buon’ora, il primo gruppo non riesce a partire prima delle ore 11, durante la notte sono caduti 10 cm di neve e questo ha destabilizzato un po’ i buoni propositi di una partenza rapida.

Il primo gruppo è composto dal sottoscritto e da Roberto Nardoni. Il nostro compito è quello di installare gli ancoraggi e di posizionare le corde sui primi salti così da agevolare il passaggio del resto del gruppo. Man mano che procediamo, veniamo riforniti di nuove corde dai componenti del gruppo, che ci seguono in una sorta di processione dove, chi sta avanti si occupa di installare le corde e gli armi, e chi è in coda si occupa di recuperarle ed insaccarle per poi farle pervenire alla “testa” di questo lungo bruco immaginario.

Questa tecnica non mi ha mai convinto moltissimo ma, considerando le forze e le esperienze dei componenti, è stata la scelta migliore se non l’unica possibile per una progressione veloce e sicura.

Il primo tratto di torrente si presenta in ambiente aperto e boschivo, poco verticale e molto discontinuo con numerosi e lunghi tratti di marcia che allungano molto il gruppo, che è già molto lento e che, a causa di una partenza decisamente non all’alba, costringe ad una sosta per la notte in una zona del torrente molto lontana da quello che sarebbe voluto essere il nostro obiettivo per il primo giorno di discesa.

Riusciamo comunque a costruire un ottimo campo in zona aperta ricca di legna e ad accendere un fantastico fuoco ristoratore.

Il giorno seguente la sveglia è alle ore 5:30, nella speranza di essere in marcia per le ore 7, speranza disattesa, ci rendiamo conto di essere molto lenti nelle fasi di preparazione e chiusura del campo, alcuni più di altri, ciò ci permette di partire solo alle ore 8; per fortuna il giorno precedente avevo provveduto ad armare la prima calata così un po’ di tempo è stato recuperato!

L’ambiente che ci circonda durante tutto il secondo giorno di discesa è molto più vario rispetto a quello del giorno precedente. Un susseguirsi di ambienti stretti intervallati da alcuni tratti di marcia, sempre in ambiente maestoso. “La forra si sta chiudendo”- dico tra me e me, felice e anche un po’ preoccupato dal fatto che la portata è comunque importante e molto variabile tra il mattino e il pomeriggio. Valuto, infatti, che nel tardo pomeriggio potrebbe esserci una portata quasi doppia rispetto a quella del mattino presto, ma non sarebbe un grosso problema se la portata iniziale non fosse un ipotetico 150 lt sec, e se non ci fossero gli affluenti, grandi e piccoli, che si immettono nel Chamje, oltre agli innumerevoli stillicidi!

Durante questa giornata sono da citare sicuramente due passaggi molto interessanti. Il passaggio in una grotta costituita da alcuni massi ciclopici incastrati che formano un suggestivo passaggio ipogeo dove l’acqua si frange a formare una pioggia continua, seguita da uno stretto passaggio dove tutta la forza dell’acqua viene convogliata in un corridoio non più largo di un metro, con pozza di ricezione allungata turbolenta e, ciliegina sulla torta, un bel masso semi affiorante che genera un bel sifone. Per bayoassare tutto questo ho deciso di allestire una calata con 3 deviatori. Il secondo passaggio è una cascata che parte come un toboga poco verticale, per poi saltare direttamente in una pozza dove il torrente cambia decisamente direzione e forma dei movimenti in pozza molto interessanti.

Obiettivo imprescindibile del giorno è raggiungere l’inizio della vera e propria parte stretta del percorso; raggiungiamo questo punto alle ore 16:30 con un giorno di ritardo sulla tabella di marcia.

Il giorno seguente ci aspetta la parte più tecnica del torrente, la parte inforrata, per la terza giornata decido di piazzare in pole position il team Italiano al completo e quindi anche Jari, che fino ad allora era rimasto nella parte finale del gruppo, si unisce a me e Roberto che, per il terzo giorno consecutivo, ci occuperemo di armare ed attrezzare la discesa.

Questa parte è veramente fantastica! Pareti altissime, una vera forra serpeggiante, acquatica ed intensa, bella bella bella, mi ripeterò ma bella! Ora le cose si fanno davvero interessanti! Un percorso tecnico ma mai estremo, a mio avviso, decidere dove mettere gli ancoraggi è importantissimo per non dover combattere, o almeno doverci combattere il meno possibile, con il flusso dell’acqua che ora è piuttosto imponente e difficilmente gestibile se preso tutto concentrato! Per fortuna gli ambienti consentono linee di calata morbide, mai estreme.

Il trio Italiano macina bene, 5 ore intense che ci permettono di armare e attrezzare una ventina di calate e di raggiungere il famigerato Black Hole alle ore 14:15.

Osservo bene il passaggio, purtroppo dall’alto è impossibile vedere dove finisce la cascata, è ben chiaro che l’ambiente sottostante è molto stretto ed inforrato, l’acqua si divide in due getti dove quello di sinistra prende l’80% del flusso, lasciando a destra la rimanente parte; i due flussi saltano staccandosi dalla parete e incrociandosi. La parete di destra ha una roccia migliore, più liscia e compatta rispetto a quella di sinistra, più frastagliata e stratificata. Decido di installare due piastrine come partenza della calata o del traverso… non so ancora cosa combinerò… sembra che sia possibile infilami dietro la cascata evitando così il grande flusso, sembra una buona idea, ma resta l’incognita! Poi una volta sotto sarà possibile uscire da dietro la cascata? Decido quindi di attrezzare un lungo traverso che mi consentirà di avere una visione migliore di quello che c’è sotto e nel caso di potermi calare senza essere “disturbato” dalla cascata. Alla fine monto 5 punti intermedi e un armo esposto, totale 1,5 ore di lavoro, Roberto, che manovra la corda sulla quale mi sto muovendo per creare il traverso, è oramai un ghiacciolo. Finalmente, sporgendomi abbastanza, riesco a vedere cosa cavolo c’è sotto! Un passaggio tecnico, ma non impossibie, seguito da una strettoia di cui ho potuto solo avere parvenza, perché nascosta da una stretta curva.

Dei 9 componenti della squadra solo uno si affaccia sul traverso a vedere il passaggio, nonostante questo la maggioranza decide che è tardi (15:45 con ancora 3 ore di luce) e che è meglio arrampicarsi come scimmie su per il pendio della montagna, riabile ed instabile, per cercare un luogo consono a montare il campo, circa 100 m di dislivello su corde fisse ed improbabili cenge per raggiungere dopo 3 ore il letto di un piccolo affluente detritico… ottimo punto per installare un campo, comodo e agevole…

Le discussioni per una scelta del genere sono lunghe e protratte fino a tarda notte. In completo disaccordo con la scelta fatta, me ne vado a letto convinto che il giorno seguente si sarebbe continuato nella discesa ed invece no!!! La maggioranza decide che è meglio continuare per cenge erbose ed improbabili e traversi tra gli alberi piuttosto che proseguire in torrente… Rimango basito, attonito, incredulo, sconcertato, senza parole!!! Non posso credere che proseguiremo per boschi! È una scelta allucinante ed alienante!!!! Mi bazzica pure l’idea di proseguire da solo per il torrente poi rinsavisco un attimo e capisco che sarebbe semplicemente un suicidio! Non ho altra scelta che seguire come uno zombie la carovana degli arboristi boscaioli, solo parole grame escono dalla mia bocca, non avrei mai pensato di inserire un giorno di trekking in mezzo a 5 giorni di canyon…

In due parole: assolutamente imbarazzante!!!

Non mi reputo un supereroe, so ben valutare se un passaggio è impraticabile o “solo”  molto tecnico. Se reputo un passaggio impraticabile o sono solo nel dubbio che possa esserlo, sono il primo a studiare un piano alternativo per superare l’ostacolo, anche perchè in questo caso specifico sarebbe toccato a me scendere per primo per aprire il passaggio e di certo non sono un kamikaze!!

Dopo 5 ore e più di boscaglia riguadagniamo il fondovalle in un tratto piuttosto aperto, per nulla motivato mi rinfilo la muta e riparto, attrezzo solo 3 calate prima di giungere al campo di oggi, complice anche un passaggio semi sifonante che mi costringe ad installare un traverso con 5 punti intermedi per evitare la pozza turbolenta bloccata da un grosso masso.

Il campo di oggi è situato nei pressi di un grosso faraglione che sembra la la faccia di un gigante di pietra; soprannominiamo il campo con il nome Campo Avatar.

Il giorno seguente sono determinato a raggiungere il rescue point, punto di sforro che determina la immaginaria segmentazione del Chamje Khola in due segmenti (alto e basso) in realtà non esiste una vera propria traccia per uscire dalla forra, ma solo un “al di là non è male, si riesce a passare”.

La giornata è lunga, partiamo con l’attrezzare la calata da 40 m (baypassata dal Team Francese ed anche da qualche elemento della nostra squadra), per continuare nella forra e raggiungere la calata più alta data per 70 m ma che in realta è massimo 50 m.  Sono costretto ad attrezzarla con un lungo traverso, in totale 7 punti intermedi, per evitare il forte flusso: nella pozza di ricezione vi sono onde alte 30 cm e un vento nebulizzato molto pungente.

Fortunatamente il tratto successivo è caratterizzato da una sequenza di tuffi, max 7 m, che velocizzano la progressione, entriamo infine nella terza parte (baypassata dal team Francese) che inizia con due calate 30 m + 30 m, la prima attrezzata completamente all’asciutto in riva destra, la seconda con un bel deviatore in riva sinistra.

L’ora è tarda ed infatti raggiungiamo l’ultima cascata alta, circa 35 m, all’imbrunire, alcuni elementi del team cominciano a dire che sarebbe meglio fermarsi e fare campo, io guardo sul mio altimetro… mancano 80 m di dislivello al rescue point, 35 li ho sotto i piedi quindi non manca molto, mi consulto con Roberto e Jari e decidiamo che a prescindere da quello che il gruppo avrebbe deciso, noi 3 avremmo comunque continuato, nonostante l’oscurità, fino alla vicinissima meta!

Il gruppo prende coraggio e si continua! Altra calata con deviatore, stringo l’ultimo bullone alla luce della mia frontale, si continua, ci aspetta un tratto sub-orizzontale caratterizzato da grossi massi che rendono arduo individuare quale sia il giusto passaggio, situazione peggiorata ovviamente dall’oscurità, alla fine installo altri 3 armi singoli per superare in sicurezza piccoli dislivelli e poi come un miraggio vedo le luci della squadra di portatori, vedo il fuoco acceso, vedo la fine di questa odissea!

Facciamo qualche numero: sono stati utilizzati 140 fix più oltre 40 ancoraggi naturali, possiamo sicuramente affermare che il team Italiano ha lasciato la sua impronta nel Chamje Khola, 5 giorni di lavoro instancabile, personalmente mi sono occupato dell’installazione di tutti gli ancoraggi dovendo anche poi aprire da primo tutti i passaggi, compresi quelli più tecnici. Ringrazio in primis Roberto che è stato un aiuto insostituibile in tutte le fasi della discesa e che si è occupato di installare e gestire la grossa maggioranza delle corde, ringrazio anche Jari che è stato sicuramente un tassello fondamentale nel team di sfondamento, una sicurezza in più quando la forra si è stretta e i giochi si sono fatti duri sul serio! Ringrazio tutto il restante team che si è sobbarcato gli zaini con tutto il materiale per la discesa e i campi.

CONCLUSIONI: Chi mi conosce sa bene che non sono assolutamente il tipo che riesce a frenarsi dal dire le cose come stanno, dal mio punto di vista ovviamente… quindi come stanno le cose?

Vari sono stati i problemi e le difficoltà, prima fra tutte la differenza linguistica, basti pensare che tra 9 persone 4 nazioni: Italia, Repubblica Ceca, Russia e Ucraina, 9 persone che comunicano in Inglese non sempre con cognizione di causa.

Differenti abitudini, estrazioni, esperienze, tecniche e idee, un minestrone di tutto, forse troppo.

La problematica più grande, a mio avviso, è stata il fatto che la grossa maggioranza del gruppo avesse una grande preparazione speleologica e meno torrentistica. Basti pensare che alcuni dei componenti del team avevano al loro attivo solo 12 canyon… e qui la domanda sorge spontanea: “Ma sei io prima di decidere di affrontare questa avventura mi sono fatto delle domande e ho dovuto fugare dei dubbi avendo al mio attivo oltre 1300 canyon in 4 continenti, che domande si fa chi ha solo 12 forre all’attivo? E soprattutto che risposte si dà?”

Ho scoperto questa bella notizia solo a campo 3, quindi già in forra, se avessi saputo prima questo “piccolo” particolare probabilmente, anzi, sicuramente mi sarei ben visto dall’unirmi al gruppo! Idem i miei compatrioti.

Avevo espresso, al capo spedizione, grosse perplessità riguardo questo argomento, il basso livello tecnico, già nei primi giorni di spedizione, quando siamo riusciti ad uscire di notte in un torrente con sole 8 calate, ma mi era stato assicurato che le diverse esperienze ed attitudini dei componenti della squadra sarebbero state il punto di forza del tea nel momento in cui il gioco si fosse fatto serio… bene… quando il gioco si è fatto serio ho solo visto gente che si arrampicava e aggirava per boschi l’ostacolo, a quanto pare il mio pensiero era stato lungimirante.

Mi dispiace essere così critico, ma sono le stesse rimostranze che ho espresso più volte durante tutta la spedizione e non ci si può certo illudere ora che il mio pensiero a riguardo muti magicamente nascondendo sotto il tappeto quanto successo!

Posso dire con certezza una grande verità: il torrentismo e la speleologia sono due attività molto diverse, con tecniche molto differenti e con prerogative assolutamente distanti. Un forte speleologo non è per assodato un forte torrentista e viceversa, ovviamente. L’esperienza di fiume non può essere sostituita da poche nozioni part time e dalla autoconvinzione che dato che si è abituati a resistere per lungo tempo in ambienti ipogei, ciò sarà sufficiente ad essere adatti a forre acquatiche, tecniche ed impegnative come il Chamje Khola!

Concludo ringraziando tutti coloro che hanno partecipato, aiutato, collaborato, direttamente e indirettamente, a questa spedizione rendendola possibile. Ognuno di noi è stato un tassello fondamentale per la realizzazione di questa grande avventura, nessuno è indispensabile o insostituibile, ma tutti sono stati necessari per realizzare questo grande progetto.

Nonostante tutto non posso negare che la compagnia e la simpatia dei partecipanti hanno reso meno pesanti i lunghi giorni di sforzo e fatica, non posso che ringraziare tutti per l’impegno e l’entusiasmo profusi in questo progetto.    Personalmente sono tornato a casa con una grande lezione di vita e questo è già molto, quindi un grazie di cuore a tutti.

 

Foto di Jari Triboldi.

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